Risposta sbagliata. E forse anche la domanda.

Buongiorno,

periodicamente sento porre il problema dell'emigrazione dei giovani laureati italiani, per il costo umano e sociale che rappresenta per l'Italia e questo articolo a illustre firma di Luigi Zingales mi dà lo spunto per tornarci su con un post ad esso dedicato.

Il progressivo aumento del numero di laureati e tecnici italiani che prendono la strada per l'estero, numero non compensato da un analogo flusso in ingresso (come invece sarebbe auspicabile e salubre per favorire la circolazione di idee ed innovazione), ha portato il nostro Paese a porsi il problema in maniera un po' meno immatura di quanto facesse anche solo dieci anni fa, quando sopravviveva ancora il falso mito secondo cui, tanto, prima o poi costoro (ed il loro know how) sarebbero rientrati, magari anche portando il Italia i proventi di quanto fatto all'estero.

Il fatto è che stiamo scoprendo che il mare, il sole, la pasta e la pizza non sono un richiamo sufficiente per farli rientrare, nè lo è un costo della vita che presumevamo scioccamente ed erroneamente essere a noi favorevole. La pasta di Gragnano si trova anche nei supermercati di Hannover o Newcastle e, in proporzione agli stipendi locali, normalmente costa meno che a Gragnano. Stesso per Brunello e Sassicaia o per i più modesti Cabernet e Prosecco. E di vivere nel paese del sole te ne fai poco, se ogni giorno sei costretto a restare al lavoro 12 ore ed esci quando il sole è già tramontato, mentre i tuoi colleghi esteri pare sappiano ancora cos'è il tempo libero...

Insomma solo adesso "scopriamo" che il laureato o il tecnico che emigra lo fa nella prospettiva di non rientrare perchè all'estero trova una condizione di vita (e non solo un salario) migliore. Al limite lo rivedremo da turista in ferie, forse...

A questo problema continuo a sentir dare essenzialmente due tipi di risposte: 
  • una legata sostanzialmente all'ambito accademico e della ricerca che peraltro, proprio per questa sua dimensione circoscritta, ha generato risultati molto limitati e non in grado di invertire una tendenza generale
  • l'altra, ben rappresentata dall'articolo di Zingales, indica nell'eliminazione dei privilegi acquisiti nel mercato del lavoro dalle vecchie generazioni, di fatto a carico dei giovani, il meccanismo in grado di rendere meno oneroso per le aziende assumere i giovani, e quindi per questi più appetibile restare in Italia a fronte di una domanda più robusta.
Insomma, Zingales pone l'eterno italico tema del costo del lavoro anche per alcune tipologie di lavoratori cui normalmente non veniva sinora applicato. Ed il fatto che la maggior parte dei laureati e tecnici italiani emigrino in paesi dove quel costo è per le aziende superiore a quello che avrebbe in Italia non lo fa dubitare della bontà della soluzione proposta. Nè lo fa dubitare il fatto che una legislazione che sta allungando la vita lavorativa delle persone di fatto congela direttamente i pensionamenti e, indirettamente, in assenza di crescita economica, le assunzioni.

Io invece davanti ad entrambe le ricette resto perplesso (1).

Perchè, come ho spesso scritto, la struttura imprenditoriale ed industriale italiana si conferma fortemente determinata (in maniera del tutto suicida) a mantenere dimensioni aziendali limitate e ad operare in settori di limitata complessità (2), e in queste condizioni elevate specializzazioni e professionalità servono molto limitatamente. Quindi, in conseguenza di quelle scelte, sono per le aziende un investimento sbagliato, perchè, a fronte di un costo emergente, non generano alcun beneficio. L'ipotetica "Cooperativa ricamatrici a tombolo S.C.a r.l." non avrà mai necessità di assumere un fisico del plasma, anzi ne sarebbe danneggiata perchè si assumerebbe un costo improduttivo. Al più avrà bisogno di altre ricamatrici, di un trasportatore, di un ragioniere... E, estendendo il ragionamento, una società avente una economia che si basi sul ricamo a tombolo (o su piccole attività tradizionali e semplici) non avrà quindi bisogno di grandi numeri nelle professioni elevate nè dell'indotto che permette a queste di operare.

Come a Zingales dovrebbe essere ben chiaro, in assenza di domanda di skill elevati, l'offerta continuerà perciò a spostarsi altrove. Un ipotetico geniale ingegnere italiano che sia in grado di rivoluzionare la diagnostica per immagini in ambito 3D potrà nascere con difficoltà sempre maggiori in Italia, ma non potrà lavorare in quel campo nel suo Paese, per il semplice motivo che in Italia non esistono imprese che progettino e realizzino TAC, RM e PET. Quindi questo ipotetico ingegnere sarà molto attratto da Germania, USA o Giappone, Paesi peraltro nei quali verrà normalmente a costare alla sua azienda più di quanto costerebbe in Italia, con buona pace del pensiero di Zingales che ragiona solo sul costo del lavoro e non sul profitto che questo genera. E situazioni analoghe troviamo per il settore IT, per quello aeronautico, nella robotica, ...

Insomma, la risposta che cerca di dare Zingales (ma anche lo Stato in ambito universitario) è di importanza secondaria rispetto ad una dimensione del problema molto più ampia, perchè pretende di ricondurlo ad un questione interna al mercato del lavoro italiano, quando va invece ascritta all'interno di una scelta di politiche industriali da condurre sul piano globale: sino a quando l'Italia vorrà restare confinata al di fuori delle grandi realtà aziendali (=penalizzata nelle commesse di maggiori dimensioni) ed al di fuori dei settori ad alta innovazione e ad alto valore aggiunto (=confinata in settori scarsamente redditizi) è ovvio che le figure professionali che trovano sbocco in questi settori se ne adranno altrove. E L'Italia continuerà stranamente e serenamente a sprofondare malgrado qualsiasi abbattimento del costro del lavoro.

Ciao

Paolo

(1) sia chiaro: sono d'accordo con Zingales che l'attuale sistema che scarica qualsiasi costo sui giovani è aberrante, penalizzante per loro e va rivoluzionato quanto prima.

(2) Ritengo, anche per esperienza personale, che questa condizione sia ampiamente legata ad una diffusa inversione della piramide delle competenze, per la quale proprietà e dirigenze aziendali italiane hanno competenze e visione inferiori a quelle dei sottoposti, ove sarebbe necessario l'esatto contrario: molto spesso il paròn non ha nè la competenza specialistica dei suoi sottoposti nè la loro capacità di analisi e sintesi e finisce coll'essere il primo freno di una impresa che, per cultura, non rinuncerà mai a comandare in prima persona. UPDATE: qui una piccola parziale conferma di questa interpretazione

2 commenti:

F®Ømß°£ ha detto...

Ieri avevo commentato, ma devo aver sbagliato qualcosa e il commento si è perso.

Condivido il post, il punto è ben centrato.

1) Abbiamo molte aziende troppo piccole guidate da imprenditori con mentalità se non gretta, almeno arretrata. Tali aziende spesso passano dalla padella nella brace quando vengono ereditate dai degni figli. Queste imprese sarebbero danneggiate dall'ingresso di un laureato troppo qualificato, il quale peraltro rimane frustrato dall'ambiente di semianalfabetismo in cui si trova e, soprattutto dagli stipendi-farsa.

2) Vengono continuamente alimentati falsi miti:

2a) L'Italia - diventata una delle grandi potenze, basandosi sull'industria e sulla manifattura - dovrebbe prosperare abbandonando questi settori e puntando tutto su turismo e Made in Italy, inteso come lusso e gastronomia*.

2b) Si fa credere ai giovani che l'unico obiettivo sia aprire una startup, come se da un lato tutti fossero in grado e dall'altro, qualora tutti lo facessero, la cosa fosse sostenibile.

Tempi oscuri

Tommaso

* Magari seguendo gli insegnamenti di un "mercante" che ciancia di "terra madre" e ostenta la parola "roba" in ogni sua tronfia intervista.

Pale ha detto...

Post molto interessante e commento di Tommaso non da meno.

Per ovvie ragioni questo tema mi e' caro e giustamente avete toccato dei punti chiave del problema, che e' complesso e che richiede collaborazione fra impresa e lavoratori, ma ancor di piu' serve un piano da parte dello stato. Una visione. Cosa vuole essere l'Italia da qui ai prossimi 50 anni?

Da una parte trovo giusto incoraggiare la nascita di startup; dall'altra pero' l'Italia e' piena di piccole e medie imprese e fatica a sviluppare economie di scala che possano competere con il mercato internazionale (anche solo europeo darebbe buono!). In piu' abbiamo una catena di distribuzione dell'Ante-guerra...

C'e' molto lavoro da fare. Io mi accontenterei che il numero di laureati che lasciano l'Italia sia uguale a quello in entrata (per lavori qualificati). Lo so che non e' accontentarsi, ma per me quello dovrebbe essere l'obiettivo numerico di riferimento, anche prima della Visione di cui parlavo prima.

Pale