Delocalizzazione equa e solidale

Buongiorno, 

Oggi articolo di Michele. Stiamo diventando un blog per orientalisti.

Ci sono varie ragioni per cui si chiudono aziende da noi per andare ad aprirle in Cina e alti paesi asiatici. Tra queste oltre al costo della manodopera ci metto anche le minori tutele nei riguardi della forza lavoro – esempi ne sono Honda e soprattutto la Foxconn, azienda che produce l’elettronica destinata all’assemblaggio dei Personal Computer e gli iphone, ipad, ipod, che da molti punti di vista ha fatto “scuola” nei mesi scorsi – e ci metto anche le scarse regole in materia di rispetto ambientale.



Infatti, le regole che da noi vigono in materia di sindacato, diritti del lavoro, rispetto dell’ambiente, si traducono in costi aggiuntivi e complicazioni burocratiche che gli imprenditori evitano volentieri andando a produrre nel far est (ndr: o, spesso adottando gli stessi crismi, in Tunisia)

Capita spesso di sentire sparate da parte di esponenti della Lega in merito all’introduzione di dazi, per proteggere le produzioni nazionali soggette alla concorrenza di prodotti provenienti da quei paesi che, non avendo alle spalle il fardello di tutte queste regole, costano molto meno e quindi sono più appetibili (sparate cui fanno seguito però comportamenti spesso non coerenti).

E’ chiaro che la circolazione delle merci all’interno della comunità europea è regolata da leggi comunitarie, mentre per i paesi extra-comunitari è regolata da accordi internazionali per cui mi sembra fuori luogo tirare fuori il mantra dei dazi, credo però che si potrebbe provare a prendere una strada diversa. Dal momento che è interesse di chiunque fare affari con noi (come Comunità Europea), si potrebbe richiedere a chi importa i suoi prodotti di fornirci delle certificazioni sul rispetto di un minimo di regole per quello che riguarda diritti del lavoro e ambiente, e che aprano le fabbriche a ispezioni che controllino il rispetto di queste.

Così facendo si creerebbe un sistema virtuoso che comincerebbe a equilibrare i divari che esistono tra il nostro mondo fatto di regole e quindi più complesso, e il mondo più semplice, che ai miei occhi pare quasi una terra selvaggia, del far est.

Riprendo la linea per i miei soliti dubbi.

Ho sempre molte perplessità sull'efficacia di marchi e certificazioni: nella realtà è quasi sempre troppo facile aggirarli (ricordo un agghiacciante servizio sull'aggiramento del marchio "No child labor" sui palloni da calcio qualche anno fa, ma ho visto cosa spesso succede nei sistemi qualità).

Arrivo persino a pensare / temere che nelle fasi iniziali di un processo di industrializzazione fenomeni di sfruttamento e paraschiavitù siano inevitabili.

In questo caso specifico ci sarebbe una fortissima pressione in tal senso, in quanto sia i produttori che i clienti (che il paese che ospita le fabbriche) hanno l'interesse a mantenere bassi i costi del prodotto per non rischiare di lasciar diminuire il business. E l'esempio dei gadget di Milano conferma che probabilmente tale politica sarebbe scarsamente utile.

Nel pezzo di Michele c'è però anche un altro spunto su cui bisogna riflettere: le nostre imprese non stanno più facendo solo il viaggio dal lombardoveneto alla Romania, ma ormai anche dal Trentino  (!) all'Austria o alla Svizzera, paesi dove il costo del lavoro è ben superiore al nostro, ma dove tassazione, servizi e burocrazia sono molto più adeguati. A dimostrazione che i roghi di leggi inutili di Calderoli e le intemerate di Brunetta contro i fannulloni non hanno portato benefici significativi agli italiani, ma che su quel fronte è possibile e doveroso recuperare efficienza.

Ciao
Paolo

4 commenti:

francesco.caroselli ha detto...

Michele ti sei dimenticato come è andata l'esportazione della democrazia in Afganistan e Iraq.
La stessa cosa potrebbe accadere se provassimo ad imporre i nostri diritti all'estero.
I diritti i cittadini li devono volere, se li devono conquistare, altrimenti è come se non ci fossero.

In my opinion se si continua sulla strada di un ovest consumatore e di un est produttore si arriverà ad un certo punto che noi (come società occidentale) non avremo piu nulla da offrire nello scambio...
Già ora siamo messi male...
La Cina continua a mantenere in piedi l'America comprando il suo debito pubblico e non può far fallire l'America altrimenti si brucerebbe i suoi stessi soldi..
ma cosa succederà quando quest'esigenza si esaurirà?

Per uscire da questo rapporto malato bisognerebbe uscire piano piano con un approccio politico.
Nell'interesse del paese bisognerebbe tendere all'autosufficienza, ovviamente ci sono certe cose che non si possono avere tuttein un paese, vedi risorse naurali, ma almeno tendere all'autosufficienza alimentare si potrebbe fare...e ora siamo molto lontano.


I paesi in via di sviluppo prima o poi si svilupperanno e quando questo accadrà i suoi cittadini vorranno delle condizioni di vita e di lavoro migliori, noi possiamo solo aiutarli a prendere coscienza, per ora non si può perchè quei poveracci non hanno nulla di cui vivere e i diritti non si mangiano....
Mi rendo conto di parlare come gli internazionalisti comunisti che vogliono la rivoluzione proletaria globale...ma in fin dei conti non è cosi sbagliato.
Se ci pensate il "padrone" (che espressione stupida ora ha un vantaggio enorme nella contrattazione, se voi chiedete troppo io me ne vado dai poveracci che non hanno nulla e lavorano per un pezzo di pane...
L'estremizzazione di questo modus operandi è un collasso totale perchè poi i prodotti che vengono fabbricati nel terzo mondo devono essere venduti qui nel primo...ma se da noi dismettono qualunque lavoro, i cittadini del primo mondo non sapranno con che pagare i prodotti..
sembra un paradosso!

francesco.caroselli ha detto...

Paolo ieri ho sentito che a Mirafiori si assembleranno i motori (di ultima generazione) prodotti in America e poi la maggior parte delle macchine verrà reimportata in America..
NOn è una follia?
Ma termini Imerese non era stata chiusa perchè troppo distante dal cuore produttivo? E ora a questi motori gli fanno fare su giu?
Non capisco

Michele R. ha detto...

Arrivo persino a pensare / temere che nelle fasi iniziali di un processo di industrializzazione fenomeni di sfruttamento e paraschiavitù siano inevitabili.

Tutti i torti non ce l'hai ma la differenza tra noi e loro è che da noi qualche brandello di libertà (anche di sciopero e di dissenso) esiste, in Cina questo No.

Sul secondo commento di Caroselli, sulla vicenda Termini Imerese, lo sottolineava anche Landini ieri sera ad annozero. Il problema vero è che in questi referendum è che per arrivare a vedere gli investimenti devi accettare un sacco di clausole, ma il come, dove, e quando non vengono mai esposti.

Michele R. ha detto...

All'inizio del 900 gli scioperi venivano combattuti dai padroni anche con la forza mandando la polizia. A Berlusconi, che ragiona per dare fiato ai polmoni, si dovrebbe ricordare che Giolitti noto comunista, fu il primo a lasciare che padroni e operai se la sbrigassero tra loro, non prendendo le parti di nessuno non faceva intervenire la polizia a bloccare gli scioperi. Così la classe operaia comincio ad acquisire qualche straccio di diritto. Padroni e Lavoratori cominciarono a trovare un equilibrio.