Oggi sono troppo stanco per scrivere alcunchè: vi accontentate di un fill in un po' datato, vero?
Buongiorno,
Buongiorno,
Il capitano coraggioso delle autostrade |
Personalmente non ho nulla in contrario a lasciare agli imprenditori la facoltà di richiedere ai propri dipendenti condizioni di lavoro diverse da quelle in uso, specialmente se, come per l'apertura dei negozi nelle date festive nelle città d'arte (altrove non credo realistico che l'estensione dell'orario comporti un aumentio del giro d'affari), queste condizioni possono promuovere lo sviluppo dell'impresa e migliori condizioni economiche anche per i dipendenti.
Di pari passo vorrei però vedere anche un impegno dell'azienda in tal senso, con rinnovo di locali e mezzi, incentivi adeguati ai dipendenti, innovazione di prodotto o tecniche commerciali,..., vorrei cioè vedere che mentre si richiede ai dipendenti di accettare condizioni di lavoro più pesanti, di pari passo si realizzino investimenti ed innovazioni in azienda., perchè l'azienda possa crescere strutturalmente e non solo aumentare iestemporaneamente i propri ricavi.
La vedi? è la nebulosa "Fabbrica Italia" |
Purtroppo quello che troppo spesso vedo è che la richiesta dell'impegno supplementare dei dipendenti è alternativo a quello del titolare dell'azienda nel senso che dicevo: in realtà spesso la logica è che, dato che io imprenditore non investo e non rinnovo, chiedo a te dipendente di farti carico dei costi dell'inefficienza che ti impongo.
Il che sembra sempre di più essere quanto quello che sta succedendo nella già citata Fiat, azienda che, vendendo sempre meno e con margini sempre più bassi va bene in borsa grazie ai risparmi di spesa realizzati tagliando sulla R&D, come testimonia la vetustà dei modelli offerti e la loro conseguente scarsa attrattiva sul mercato.
E la cosa è ancora più evidente nella piccola impresa, come spesso sono gli esercizi commerciali, dove negozi e prodotti tendono a restare sostanzialmente sempre uguali a sè stessi.
Per capire quanto questo approccio di scarsa attenzione nei confronti dei dipendenti se non proprio "di rapina" sia piuttosto generalizzato si può osservare cosa succede con il mercato dei buoni pasto, nati per permettere agli imprenditori di non strutturare un servizio di mensa, erogando invece un corrispettivo di valore contrattualmente definito ai dipendenti.
Cattivi pasto... |
Il gestore del servizio buoni (che in Italia non strutturerà alcun servizio di ristorazione per calmierare i costi, a differenza di quanto succede in altri Paesi) si appoggerà su bar e ristoranti locali cui, per guadagnare, corrisponderà con ritardo di almeno due mesi, meno dei 4,80€ pagati dal datore di lavoro, e molto meno dei 5,20€ "dati" al dipendente, diciamo 4,30€ per sparare un numero. Si limiterà quindi a trarre beneficio da una operazione di finanza parassitaria.
Qualcuno, molto ingenuamente, potrà pensare che la differenza tra i prezzi si scaricherà in questo modo sul ristoratore, e che tutti gli altri ci abbiano fatto un affare. Ma il ristoratore, ovviamente, non è scemo e, per poter guadagnare della propria attività, ricorre al più banale degli escamotage: rincara del 25% i prezzi delle pietanze che tipicamente si mangiano in pausa pranzo (e che quindi si pagano con i buoni): insalatone, piatti freddi, panini, primi precotti...
Il risultato vero è che il buono ha un valore nominale superiore a quello reale: il risparmio realizzato dal datore di lavoro ed il guadagno del gestore (con una rendita assolutamente parassitaria, visto che lavora solo sull'aspetto finanziario) sono integralmente ripagati in modo indiretto dal dipendente. A riprova di ciò vi è il fatto che sempre più persone trovano ovviamente conveniente spendere i buoni nei supermercati, dove non è possibile ricaricare il costo di beni specifici, pena perdere la clientela che non paga coi buoni, ed il buono pasto, mantiene intatto il suo valore nominale a spese del supermercato, ma perde la sua funzione sostitutiva della ristorazione in pausa pranzo. Oppure il fatto che catene di ristorazione che non hanno il loro core busness nella pausa pranzo preferiscano rifiutarli perchè incompatibili con le loro politiche di prezzo o non redditizi (Mc Donald, mi risulta).
Eppure alternative meno pesanti per i dipendenti non mancherebbero: riconoscere in busta la cifra come da contratto (per esperienza personale: al bar vi proporranno sconti del 25% rispetto al listino se andate regolarmente a mangiare in un posto e pagate cash invece che con i buoni), strutturare una mensa aziendale, consorziarsi con altri imprenditori per organizzare un servizio di ristorazione in comune... ma la scelta degli imprenditori ricade sempre più spesso, ovviamente, sui buoni pasto. Possibilmente aggiudicati con gara al minor prezzo, visto che gli sconti gravano sul dipendente.
Ciao
Paolo
7 commenti:
Buondì,
come detto in un tuo post recente, credo che una differenza tra destra e sinistra sia essere dalla parte dei pulciosi piccoli imprenditori ormai fuori dal tempo, oppure contro di loro, a favore dei dipendenti, costretti a pagare per la pochezza dei primi.
Saluti
T.
È anche vero che il capitalismo familiare, con tutto il bene che può averci fatto in passato evitando speculazioni eccessive sul suolo nazionale, significa che i capitani coraggiosi sono lì in quanto hanno un certo cognome. Mettereste uno che finisce all'ospedale strafatto di droga a dirigere non dico il Brand Promotion, ma QUALSIASI COSA di una azienda? Direi di no. Ne consegue che dai FIGLI (Vulvia) possiamo aspettarci prevalentemente soluzioni di tipo casalingo, come faccio io a casa mia, ad esempio mettere lampadine a basso consumo per risparmiare sulla bolletta, o risparmiare sulla spesa al discount.
(il captcha è "storted" che per qualche motivo mi fa molto ridere)
A proposito di capitani coraggiosi è da segnalare l'editoriale di presentazione di First, rivista online di economia, in particolare il passaggio:
La degenerazione verso il politichese si è affermata più di un decennio fa con la presidenza D'Amato, quando lo stesso presidente ha esplicitamente diviso l'associazione tra maggioranza che aveva vinto le elezioni e minoranza che aveva perso con il diritto per la maggioranza di occupare tutti i posti di comando, quando si è affermato il concetto che Il Sole 24 Ore e la Luiss sono due "strumenti" in mano alla presidenza da usare per il perseguimento dei suoi fini politici. Insomma quando si è smarrito il concetto della Confindustria come libera associazione di imprese in cui il presidente non è il "capo" degli industriali che si è conquistato quel posto dopo una dura competizione elettorale, bensì il "portavoce" degli imprenditori chiamato a quel ruolo per puro spirito di servizio.
Che condivido in pieno.
Allarme Zanzara
Troppo bello.
Sentitevi la puntata di oggi.
Il dramma di Cruciani.
Il ministro La Russa sbraita contro che Cruciani accusandolo di essere un antiberlusconiano.
Ho riso per un paio di minuti.
Stamane su "il Fatto Quotidiano"
La rabbia dei Signori
di Giorgio Meletti
Il mito da sfatare è che l’Italia vada in fondo bene e che dunque gli imprenditori devono piantarla di lamentarsi”. La Confindustria scopre
che Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti raccontano balle. Meglio tardi che mai. Ma soprattutto rivendica per i suoi iscritti – non tutti poveri – quel diritto alla ribellione che ha sempre negato ai lavoratori, ai precari, a chi vede lo spettro della disoccupazione, a
chi ha già perso l’impiego: è noto che sempre allegri bisogna stare ché il loro piangere fa male al re.
Adesso che Emma Marcegaglia ci ha detto
che anche i ricchi, anzi, solo i ricchi piangono, c’è veramente da avere paura. Ancora pochi mesi fa recitavano il mantra del loro collateralismo: “Il peggio è passato”. Se questi signori, che la sapevano così lunga, ammettono il loro smarrimento, che cosa deve pensare l’operaio della Fincantieri? La declinante lobby degli industriali ci ha rivelato di essere travolta dalla bancarotta del berlusconismo. Non una sola parola di autocritica, naturalmente: la borghesia industriale italiana vuole giustamente comandare, ma anche assegnare le colpe a chi ha solo obbedito, politici compresi. La presidente della Confindustria ha disegnato un agghiacciante ritratto del “decennio perduto” che ha fatto dell’Italia un Paese semplicemente più povero e forse disperato. E allora ricordiamo che esattamente dieci anni fa, il 24 maggio 2001, la Confindustria di Antonio D’Amato si consegnò a Berlusconi che aveva appena vinto le elezioni e contraccambiava dicendo “il vostro programma è il mio”.
Gli industriali hanno scommesso sul berlusconismo, lo hanno usato per attaccare i sindacati e smontare la concertazione, lo hanno spalleggiato per poter meglio “ottenere aiuti pubblici” (la Marcegaglia ieri ha confessato che per decenni la confindustria è servita a questo). Chiedevano in cambio nel 2001 più contratti a termine, riforma fiscale e infrastrutture. Hanno ottenuto solo tanti precari in più.
Ieri la Marcegaglia ha letteralmente gridato: “Infrastrutture subito! Riforma fiscale subito!”. Con la memoria hanno perso la cognizione del tempo. Marx è morto, la Confindustria è moribonda, e anche i giovani disoccupati oggi non si sentono tanto bene.
Come non essere d'accordo?
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