Da Porto Marghera alla riforma Gelmini

Buongiorno,

le recenti manifestazioni contro la riforma dell'università hanno, secondo me, origini lontane, in quanto la riforma è in qualche modo la naturale conseguenza di un processo che dura ormai da almeno trent'anni, portato avanti con coerenza e, purtroppo, con poca trasparenza.

Negli ultimi decenni infatti, le imprese italiane, con il benestare e la partecipazione del governo e dell'apparato statale, hanno perseguito un progetto di downsizing estremamente rilevante (quando non di dismissioni di interi settori), mascherando con slogan vuoti ma molto “moderni” l'esigenza di gonfiare artificiosamente il PIL, di pompare capitali verso la politica e di sottrarre spazio a dei sindacati incapaci di mediare tra le esigenze dei lavoratori e quelle dell'impresa.

Abbacinati dall'ineluttabile progresso che ci avrebbero portato le privatizzazioni, l'outsourcing, l'economia dei servizi, abbiamo visto smembrare giganti spesso pubblici o dismettere interi settori, che spesso erano delle piccole perle. Enel, il gruppo SME, Nuovo Pignone, Ansaldo, Olivetti, l'intero settore della chimica sono stati oggetto di questo fenomeno.
  

Il risultato di questo processo è stato quello di ridurre drasticamente il numero di imprese di grandi dimensioni, sostituendo i meccanismi del mercato a quelli della programmazione e depauperando il settore manifatturiero e le capacità produttive dell'Italia, nonché le sue capacità di competere sul piano dell'innovazione.

In pratica per trent'anni si è ridotta la quantità di quadri e dirigenti realmente necessari ad imprese che sceglievano di limitarsi nelle dimensioni e nelle prospettive di crescita in Italia.

L'università, che avrebbe dovuto formare almeno in parte quei quadri e quei dirigenti, si è accorta di questo fenomeno in ritardo e ha partorito una prima riforma sull'onda di questa pressione delle imprese. Si tratta della riforma del 3 + 2, che nella pratica ha portato a sfornare più laureati meno preparati. Non un bel punto di partenza per poter crescere in settori ad alta innovazione, competitività e margini.

La Riforma Gelmini non fa che prendere atto che alle imprese italiane, a causa di queste scelte mai rinnegate, bastano pochi dirigenti e manager e che formarne un numero superiore è per lo stato un costo inutile, quindi da tagliare.

Quello che manca in tutto il ragionamento è dire onestamente agli italiani qual'è la premessa. Non ci interessa crescere, non ci interessa garantire alle future generazioni un tenore di vita e delle aspirazioni commisurate a quelle che sono state. Perchè su queste premesse, probabilmente, ci sarebbe stato un po' più dissenso su certe scelte.

Saluti

Paolo 

8 commenti:

Michele R. ha detto...

Esprimero un parere che mi pare un pò fuori dai tempi moderni:

secondo me il problema vero è che non ci sono più i veri padroni come una volta, coloro che sentono l'azienda come una loro creatura, che la curano, la coccolano, perché su di essa hanno investito i "loro" capitali, ma al più solo una piccola parte. I moderni capitani coraggiosi sono solo espressioni delle banche e di vari manipoli di controllo nelle medie e grandi aziende, ma di loro rischiano poco. Qui secondo me sta il male del capitalismo nostrano, si fa impresa con molto capitale pubblico e poco privato.

Michele R. ha detto...

A proposito: Ottimo CMM!

PaoloVE ha detto...

@ MR:

non è un problema solo nostrano: se quoti in borsa una S.p.A., chi detiene le azioni non vuole vederle calare, il che, ad esempio, contrasta con l'esigenza di effettuare investimenti di medio lungo periodo...

Ciao

Paolo

Michele R. ha detto...

Hai ragione, ma mi sono spiegato male.
Mi sembra che in buona parte delle aziende private il cosiddetto azionista di riferimento ha una piccola quota delle azioni totali, e mettendoci "pochi spiccioli", controlla un'azienda, si veda il caso di Tronchetti Provera che controllava Telecom Italia, pur avendoci investito poco di tasca sua.

Gli industriali vecchio stampo i cui prodotti, i beni, che producono e di cui conoscono tutto sugli aspetti tecnici tecnolgici, sul processo produttivo alla base, perché sono opera del loro ingegno, della loro creatività, della loro passione, sono stati mano a mano sostituiti da persone tipo Tronchetti Provera, Colaninno... gente che di tutto questo non ne capisce un acca, ma che forse sono bravi in campo finanziario. A me appaiono come uomini di fiducia delle banche, che hanno nelle loro mani buona parte dei debiti di queste aziende.

Ciao.

PaoloVE ha detto...

@ MR:

In questo credo tu abbia ragione...

Robotomy ha detto...

Credo che attribuire alla riforma Gelmini una semplice “ricalibrazione” del tiro mirata a contenere il numero di potenziali dirigenti industriali (manager, quadri che sia…) con una conseguente limitazione dei costi sia eccessivamente riduttivo e anzi, sposta in parte l’attenzione dallo schema generale delle possibili conseguenze negative. La Riforma Gelmini influisce negativamente anche sulla capacità dell’Università e della scuola in generale di produrre figure operative qualificate (ingegneri, tecnici..) e riduce ulteriormente il sostegno alla attività di ricerca e di sviluppo tecnologico fase che viene prima della produzione e del conseguente inserimento nel circuito economico del prodotto. D’altronde Il “downsizing” dell’ Industria Italiana non è da intendersi solamente in senso negativo visto che è grazie anche alle piccole e medie imprese e alle loro strutture più flessibili e più “adatte” alle caratteristiche socioculturali del nostro paese che si è riusciti ad arginare in parte gli effetti della crisi economica. Esiste in effetti un grande divario sia strategico che di impostazione gestionale tra i colossi multinazionali e le aziende medio piccole e non sono per niente sicuro che una maggior presenza di grandi realtà contribuirebbe ad un miglioramento della situazione economica Italiana, anzi. Questo in effetti va anche a conferma di ciò che dice PaoloVe (e altri…) e cioè che la vertenza Fiat di questi giorni in realtà poco ha a che vedere con il quadro generale della situazione industriale Italiana (se non, a mio parere per la questione più generale della “contrattabilità” dei diritti dei lavoratori, l’aspetto veramente odioso della questione…) visto che il tessuto industriale oggi composto in gran parte da aziende medio piccole faticherebbe ad applicare concretamente il metodo Marchionne ed anzi in diversi casi potrebbe risultare controproducente.

F®Ømß°£ ha detto...

Buondì,

concordo con Paolo: ci sono troppi laureati rispetto alle richieste (ovviamente parlo di laureati in Facoltà che abbiano a che vedere con l'industria di cui qui si parla, non laureati in Scienza della Fantafuffa). Ma senza una laurea non ti assumono, neanche per fare il lavoro di un perito. Per cui o ti fai sottopagare, o sprechi anni per essere pagato come un laureato, ma avendo fatto un master, o te ne vai all'estero.

Il tutto senza una strategia politica, dal momento che, come scritto dal ns ospite, da trent'anni nessuno ha cercato di dirigere con ottica di lungo periodo la politica industriale italiana. Prima sarà stato fatto per scelta forse, ma oggi è fatto per incompetenza e disinteresse.

Ciao

Tommaso l'amaro

PaoloVE ha detto...

...per inciso credo che la dinamica delle imprese che ho descritto si quella che ha sinora mascherato il fatto che in Italia il cosiddetto "ascensore sociale" non ha mai funzionato. Quando le imprese erano in una fase espansiva potevano permettersi di cooptare, oltre a figli/amici/amanti del management o della proprietà, anche qualche meritevole al di fuori della cerchia ristretta (mai comunque a scapito di questa), adesso quello spazio non c'è più e comincia a mancare anche per i privilegiati.

Ciao

Paolo