La profezia dell'intellettuale

Buongiorno,

ho letto con attenzione e speranza il romantico articolo di Bernard-Henry Levi in prima pagina del corriere delle sera in cui l'articolista profetizza la sconfitta dell'Isis, i cui toni mi ricordano certi reportage dall'Afghanistan ai tempi dell'invasione sovietica, quando i nostri inviati ci narravano con ammirazione le gesta dei mujahidin che resistevano all'invasione russa agli ordini del comandante Massoud.

Condivido con l'intellettuale francese la speranza nell'esito del conflitto e l'ammirazione per l'eroismo dei peshmerga, ma temo che lo slancio e la tenacia d questi dimostrati sul campo siano troppo poco per poter nutrire qualche speranza: vanno bene per vergare un'articolo come il suo, ma non hanno lo spessore di una analisi geopolitica e militare.

Purtroppo l'analisi geopolitica dice che in quello scenario l'Isis vanta finanziamenti, appoggi (se non vere e proprie alleanze di fatto come nel caso della Turchia, che parrebbe restare sostanzialmente aperta ai commerci col Califfato, garantire la possibilità di transito ai foreign fighters ed approfittare dell'evoluzione del conflitto per provare a colpire pesantemente e militarmente gli stessi curdi) e simpatie in misura probabilmente maggiore di quanto possano fare i Curdi.

Dice che i nemici dell'Isis attualmente in azione sono spesso deboli, indecisi e divisi tra loro (l'Iraq mi pare essere il paradigma di questa condizione: il suo esercito si è sfaldato praticamente senza combattere davani agli jihadisti -che hanno potuto saccheggiarne gli arsenali e, come Stato, non sembra avere molto interesse a muover guerra per un Nord abitato da curdi con velleità indipendentiste).

E dice infine che i potenziali alleati dei curdi tra i Paesi occidentali si stanno muovendo alla cieca e con una prudenza che sconfina nella pavidità (come dimostrano gli aiuti militari inviati dall'Italia, consistenti sostanzialemtne in un carico di armi leggere obsolete ed in dubbie condizioni di conservazione) e che in zona nè la Siria, nè l'Iran, nè l'Iraq nè la Turchia accetterebbero un successo militare curdo che sarebbe probabilmente il primo passo verso la nascita di un Kurdistan da tutti loro rifiutato.

L'analisi militare di quanto BHL scrive (pur forte dell'essere stato sul campo), non è meno impietosa: nessun esercito espone i propri alti gradi al rischio del fuoco, pena il restare acefalo, a meno di essere in condizioni disperate. Nessun esercito schiera ottantenni (o bambini) a meno di essere in condizioni disperate. Nessun esercito scava trincee anticarro se prevede di lanciarsi all'all'attaco. Nessun esercito può pensare di riprendersi quando vuole le posizioni che aveva abbandonato insieme a gran parte dei propri armamenti squagliandosi senza combattere.

Non metto in dubbio l'eroismo e la determinazione dei peshmerga, anzi, li ammiro. Ma sono elementi che possono contribuire a far vincere una battaglia, non la guerra, e, dopo il Novecento, dovremmo saperlo molto bene. 

Nella prima guerra mondiale gli eroici e determinatissimi Arditi morivano negli assalti alle trincee austriache falciati dalla mitragliatrice. Nella seconda gli altrettanto eroici e deteminati Paracadutisti della Folgore morivano schiacciati dai carri armati alleati nelle buche attorno ad El Alamein, nè i De la Penne riuscivano a ribaltare il dominio navale inglese nel Mediterraneo. Gli eserciti di vecchi e bambini ce li ricordiamo a Berlino, a difendere inutilmente il bunker di Hitler davanti ad una spietata e terribile Armata Rossa. I mujahidin del Leone del Panshir cominciarono ad ottenere dei successi sul campo solo quando ebbero a disposizione gli Stinger per abbattere gli elicotteri da combattimento russi (1).

Al giorno d'oggi, al di fuori di una visione romantica, a far vincere la guerra sono informazioni, alleanze, strategie e disponibilità di mezzi, cose di cui, sul fronte anti Isis allo stato attuale, sembrerebbe realisticamente poter disporre in tempi brevi più l'antipatica Siria di Assad (grazie all'appoggio russo ed iraniano) dei Curdi. La speranza è che l'Isis si trovi rapidamente ad essere deficitario su questi fronti e di non restare abbagliati dall'idea (che mi sembra permei l'articolo) che una causa santa, un luminoso scopo siano necessariamente destinati a vincere in quanto tali. Talvolta a vincere sono anche quelli che ci stanno antipatici, se non ci impegnamo ad aiutare gli altri.

Ciao

Paolo

(1) L'insistenza su mujahidin è intenzionale: in occidente tutti stanno dando per scontato che contro l'Isis i Curdi siano il nostro migliore potenziale alleato, esattamente come in Afghanistan si ritenne di preferire i mujahidin ai filo russi. Poi tra i mujahidin emersero i talebani, quelli di Bin Laden.

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