Buongiorno,
nel dibattito di ieri in materia di imprudenti affermazioni fatte dal sottosegretario Martone l'esimio Vitellozzo Silverdeschi Vantelli della Calastorta
ha posto la fondamentale domanda: "e' proprio cosi' necessario soddisfare le esigenze statistiche dell'OCSE
che ci dice che dobbiamo-avere-piu'-laureati-su-popolazione-totale?
...e se ne abbiamo meno ma i diplomati sono felici al lavoro? E se si
potessero fare corsi serali magari all'universita' per prendere
qualifiche utili al NOSTRO mondo del lavoro (piccole imprese) e non a
quello di altri (BIG CORPORATIONS), che male ci sarebbe?", domanda cui proverò adesso a rispondere sottoponendovi la mia prolissa, tromboneggiante e pedante opinione.
Personalmente credo che il dubbio di Vitellozzo abbia buoni motivi d'essere, e credo che contemporaneamente l'indicazione OCSE sia corretta ma incompleta.
La struttura minimale della stragrande maggioranza delle imprese italiane ha scarsa necessità di personale altamente qualificato, perchè realizza processi brevi e semplici, quindi non richiede personale che abbia capacità progettuali, organizzative o tecniche particolarmente elevate.
Alla ipotetica azienda di cui parlavo qui, un laureato in economia e commercio in grado di individuare mercati diversi, strumenti di penetrazione del mercato e conoscenza dei meccanismi per la realizzazione di una joint venture con partner asiatici interessa meno di una nuova cucitrice. Lo stesso vale per un ingegnere manageriale che possa razionalizzare i processi o un chimico che riesca ad individuare come stabilizzare i colori dei tessuti e irrobustire le cuciture o un informatico che realizzi il sito aziedale in modo da potervi gestire presentazione e commercializzazione dei prodotti. Men che meno interessa un laureato in lettere antiche.
La struttura delle imprese italiane, basata principalmente su PMI, come giustamente constata anche Vitellozzo, non richiede molti laureati e può funzionare così com'è anche senza di loro.
Ma il problema è che è un sistema che, proprio per l'assenza di professionalità di un certo tipo, si vede preclusa la possibilità di fare ricerca, ha di conseguenza grossissime difficoltà ad innovarsi ed è condannato a competere con armi sempre meno adeguate con le aziende di paesi in cui le stesse cose vengono fatte su scala maggiore, investendo in ricerca e sviluppo.
L'azienda di cui parlavo sopra e le mille altre ad essa simili in Italia verranno spazzate dal mercato quando a Shenzen o a Bangalore una azienda che impiega qualche migliaio di dipendenti sarà in grado di commercializzare camicie fatte in tessuto sintetico antibatterico irrestrigibile ed elastico, che sostituisce le cuciture con termosaldature ed i bottoni con eleganti sistemi a pressione a rivetto, magari anche ottimizzando il packaging in funzione della logistica e dello stoccaggio ed aprendo canali di distribuzione in internet. Tutte cose che avrà acquisito dalle conoscenze dei suoi chimici, fisici, ingegneri, informatici... Addio tagli, cuciture, bottoni ed impresa.
Mentre la piccola azienda italiana continua a lavorare "così com'è", le grandi aziende possono investire per migliorare la qualità dei prodotti che offrono. Secondo voi, sul medio periodo, chi vince?
In sintesi, con la struttura industriale che abbiamo penso che siamo destinati ad affogare per l'assenza di determinate professionalità che dovrebbero uscire dalle università. E, a pancia vuota perchè non c'è più lavoro, gran parte della felicità e della serenità se ne va.
A chi mi vorrà dire che dobbiamo specializzarci nei mercati di nicchia ad altissimo valore aggiunto chiedo se è davvero convinto che le nicchie possano dare da mangiare ad un paese di 60 milioni di abitanti e cosa gli faccia pensare che una azienda che ha maggiori competenze e mezzi tecnici non dovrebbe essere in grado di sfruttare quella nicchia meglio di chi non ha quelle risorse. E' molto più realistico che delle nicchie possano giovarsi in pochi, che in prospettiva saranno sempre meno, piuttosto che un intero Paese, purtroppo.
I problemi non stanno solo sul fronte del tessuto imprenditoriale italiano, ma anche sul fronte sociale ed universitario. Guardate di che professioni sto parlando quando indico gli strumenti perchè una economia possa crescere (o almeno non soccombere): si tratta in primo luogo di economisti, chimici, ingegneri, fisici, informatici,...
Nel mix di laureati che escono dalle nostre università c'è un eccesso di letterati, giuristi, psicologi, dottori in scienze politiche... frutto di una concezione di staus sociale che vede nel sapere tecnico e nel lavoro manuale qualcosa in meno che nelle professioni strettamente intellettuali.
Purtroppo però queste professioni si inquadrano solo marginalmente, in qualche modo "a rimorchio", nel percorso di cui parlo e possono vivere agiatamente solo se inserite in un contesto in cui i servizi hanno una stampella su cui appoggiarsi. Badate bene che non sto dicendo che non servono, sto dicendo che la nostra economia cresce (e con essa le condizioni di vita), in primo luogo se abbiamo aziende che vendono bene i loro prodotti e di conseguenza possono chiedere un indotto di servizi qualificati.
Perchè se tutti per lavoro fanno servizi, nessuno produce la pasta che ci piacerebbe cuocere a cena.
Per giunta, come sottolineava Martone, probabilmente la nostra università, che risponde ad una richiesta di formazione già poco orientata allo sviluppo economico dalla società, non è nemmeno particolarmente abile nel coltivare le eccellenze.
Il che, se ci pensate, è anche ovvia conseguenza del proliferare di facoltà ovunque. Le eccellenze, per essere tali, sono necessariamente poche. Se ad insegnare bene una materia ci sono 5 persone e 20 sedi dove si tiene quel corso, 15 insegnanti non saranno eccellenti. Potranno esserlo i loro studenti? Difficile.
In sintesi credo che l'Ocse ci stia dando una indicazione corretta ancorchè poco dettagliata, ma che noi si stia pensando di rispondervi solo in termini quantitativi e non qualitativi: stiamo aumentando il numero di laureati, a scapito della loro qualità e fornendo un mix di professionalità inadeguato, per di più ad una società che, nel tentativo di rimanere immobile, li rifiuta costringendo i migliori di loro all'emigrazione, e quindi a portare i frutti del loro sapere ad altri.
Oltre al danno le beffe.
Ciao
Paolo
Personalmente credo che il dubbio di Vitellozzo abbia buoni motivi d'essere, e credo che contemporaneamente l'indicazione OCSE sia corretta ma incompleta.
La struttura minimale della stragrande maggioranza delle imprese italiane ha scarsa necessità di personale altamente qualificato, perchè realizza processi brevi e semplici, quindi non richiede personale che abbia capacità progettuali, organizzative o tecniche particolarmente elevate.
Alla ipotetica azienda di cui parlavo qui, un laureato in economia e commercio in grado di individuare mercati diversi, strumenti di penetrazione del mercato e conoscenza dei meccanismi per la realizzazione di una joint venture con partner asiatici interessa meno di una nuova cucitrice. Lo stesso vale per un ingegnere manageriale che possa razionalizzare i processi o un chimico che riesca ad individuare come stabilizzare i colori dei tessuti e irrobustire le cuciture o un informatico che realizzi il sito aziedale in modo da potervi gestire presentazione e commercializzazione dei prodotti. Men che meno interessa un laureato in lettere antiche.
La struttura delle imprese italiane, basata principalmente su PMI, come giustamente constata anche Vitellozzo, non richiede molti laureati e può funzionare così com'è anche senza di loro.
Ma il problema è che è un sistema che, proprio per l'assenza di professionalità di un certo tipo, si vede preclusa la possibilità di fare ricerca, ha di conseguenza grossissime difficoltà ad innovarsi ed è condannato a competere con armi sempre meno adeguate con le aziende di paesi in cui le stesse cose vengono fatte su scala maggiore, investendo in ricerca e sviluppo.
L'azienda di cui parlavo sopra e le mille altre ad essa simili in Italia verranno spazzate dal mercato quando a Shenzen o a Bangalore una azienda che impiega qualche migliaio di dipendenti sarà in grado di commercializzare camicie fatte in tessuto sintetico antibatterico irrestrigibile ed elastico, che sostituisce le cuciture con termosaldature ed i bottoni con eleganti sistemi a pressione a rivetto, magari anche ottimizzando il packaging in funzione della logistica e dello stoccaggio ed aprendo canali di distribuzione in internet. Tutte cose che avrà acquisito dalle conoscenze dei suoi chimici, fisici, ingegneri, informatici... Addio tagli, cuciture, bottoni ed impresa.
Mentre la piccola azienda italiana continua a lavorare "così com'è", le grandi aziende possono investire per migliorare la qualità dei prodotti che offrono. Secondo voi, sul medio periodo, chi vince?
In sintesi, con la struttura industriale che abbiamo penso che siamo destinati ad affogare per l'assenza di determinate professionalità che dovrebbero uscire dalle università. E, a pancia vuota perchè non c'è più lavoro, gran parte della felicità e della serenità se ne va.
A chi mi vorrà dire che dobbiamo specializzarci nei mercati di nicchia ad altissimo valore aggiunto chiedo se è davvero convinto che le nicchie possano dare da mangiare ad un paese di 60 milioni di abitanti e cosa gli faccia pensare che una azienda che ha maggiori competenze e mezzi tecnici non dovrebbe essere in grado di sfruttare quella nicchia meglio di chi non ha quelle risorse. E' molto più realistico che delle nicchie possano giovarsi in pochi, che in prospettiva saranno sempre meno, piuttosto che un intero Paese, purtroppo.
I problemi non stanno solo sul fronte del tessuto imprenditoriale italiano, ma anche sul fronte sociale ed universitario. Guardate di che professioni sto parlando quando indico gli strumenti perchè una economia possa crescere (o almeno non soccombere): si tratta in primo luogo di economisti, chimici, ingegneri, fisici, informatici,...
Nel mix di laureati che escono dalle nostre università c'è un eccesso di letterati, giuristi, psicologi, dottori in scienze politiche... frutto di una concezione di staus sociale che vede nel sapere tecnico e nel lavoro manuale qualcosa in meno che nelle professioni strettamente intellettuali.
Purtroppo però queste professioni si inquadrano solo marginalmente, in qualche modo "a rimorchio", nel percorso di cui parlo e possono vivere agiatamente solo se inserite in un contesto in cui i servizi hanno una stampella su cui appoggiarsi. Badate bene che non sto dicendo che non servono, sto dicendo che la nostra economia cresce (e con essa le condizioni di vita), in primo luogo se abbiamo aziende che vendono bene i loro prodotti e di conseguenza possono chiedere un indotto di servizi qualificati.
Perchè se tutti per lavoro fanno servizi, nessuno produce la pasta che ci piacerebbe cuocere a cena.
Per giunta, come sottolineava Martone, probabilmente la nostra università, che risponde ad una richiesta di formazione già poco orientata allo sviluppo economico dalla società, non è nemmeno particolarmente abile nel coltivare le eccellenze.
Il che, se ci pensate, è anche ovvia conseguenza del proliferare di facoltà ovunque. Le eccellenze, per essere tali, sono necessariamente poche. Se ad insegnare bene una materia ci sono 5 persone e 20 sedi dove si tiene quel corso, 15 insegnanti non saranno eccellenti. Potranno esserlo i loro studenti? Difficile.
In sintesi credo che l'Ocse ci stia dando una indicazione corretta ancorchè poco dettagliata, ma che noi si stia pensando di rispondervi solo in termini quantitativi e non qualitativi: stiamo aumentando il numero di laureati, a scapito della loro qualità e fornendo un mix di professionalità inadeguato, per di più ad una società che, nel tentativo di rimanere immobile, li rifiuta costringendo i migliori di loro all'emigrazione, e quindi a portare i frutti del loro sapere ad altri.
Oltre al danno le beffe.
Ciao
Paolo
7 commenti:
Applausi a scena aperta.
Numero chiuso, selezione, merito, borse di studio, tasse alte.
Ieri assistevo al confronto tra Martone e una studentessa e, pur con quella faccia da sberle che si ritrova, il viceministro ne ha sbagliate molto poche a fronte di una aggressiva rappresentante di coloro che, semplificando, ritengono che democrazia vuol dire che laurearsi sia un diritto.
Io credo che il discorso che faceva ieri Martone che sintetizzo nella frase: "bisogna fare, studiando, lavorano, ma bisogna fare" sia la chiave.
Parcheggiarsi 5,6, 10 anni a studiare "Scienze della minchia" per poi frignare perché si trova lavoro solo nei call-lager della Vodafone non deve più essere un'opzione incoraggiata dal sistema.
T. sempre più reazionario
Rileggo la conclusione dopo averci dormito su (bloggare by night non è il massimo per la logica):
"credo ... che noi si stia pensando di rispondervi solo in termini quantitativi e non qualitativi: stiamo aumentando il numero di laureati, a scapito della loro qualità e fornendo un mix di professionalità inadeguato, per di più ad una società che, nel tentativo di rimanere immobile, li rifiuta costringendo i migliori di loro all'emigrazione, e quindi a portare i frutti del loro sapere ad altri."
Improvvisamente mi sorge una domanda: Cos'altro potevamo sbagliare?
Pessimismo e fastidio
Ciao
Paolo
Applausi anche dal turbo-liberista Pale!!!!
E anche tu, Tommy, mi esalti!!!!
Concludo la mia breve (ho scritto a questo proposito ieri e non c'e' bisogno che mi ripeta) dicendo che il mio caso non e' quello di un "migliore" che se ne e' andato per disperazione. Non mi sento migliore (o un talento, o un cervello in fuga) e non ero disperato quando me ne sono andato. Piuttosto, adesso non credo tornerei in Italia...
Il problema non e' la fuga dei talenti, ma il fatto che l'Italia non ne attrae. Se si attraessero talenti allora sapremmo di essere sulla strada giusta.
Pale turbo-liberista
Nella mia pochezza intellettuale sono d'accordo al 100% con quanto sostieni nel post e quindi mi unisco agli altri nell'applauso.
PS post da spedire a Oscar Giannino
Nel mix di laureati che escono dalle nostre università c'è un eccesso di letterati, giuristi, psicologi, dottori in scienze politiche...
...e quando un'azienda cerca un fresatore a controllo numerico - 1.600 euro netti piu' straordinari - nessuno si presenta e deve assumere stranieri (questo e' un esempio reale che posso certificare) mentre se la Regione cenrca 16 guardie forestali al concorso si presentano il 700.
PS poi ci sono le lauree date a chi ha maturato "importanti professionalita' " e basta faccia la tesi (vedesi generali con laurea in scienze internazionali e diplomatiche) tanto per taroccare le medie OCSE
dimenticavo:
Martone avrà anche ragione, ma da quanto emerge su di lui mi vien voglia di dire "un bel tacere non fu mai scritto". Stasera persino Barisoni lo sottolineava.
@ Vitellozzo:
la considerazione sociale di un ottimo fresatore a controllo numerico non sarà mai all'altezza di un pessimo laureato in scienze politiche. Quindi...
Sul concorso per guardie forestali non mi addentro. Da bambino sognavo di fare il forestale. Adesso, quando li vedo, spesso a cavallo e col cane, continuo a pensare che da bambino avevo capito tutto e son diventato invece fesso dopo.
In sintesi: se avessi saputo per tempo dl concorso forse i candidati sarebbero stati 1601 :-)
Ciao
Paolo
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